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:: Mattone su mattone; sì ma dov’è la cima? di Zali A ::

(pubblicato il 05/06/2018)

 

Sono passati tre anni da quando ho scritto la tesina per il primo Dan. Penso avessi le idee un po’confuse allora. Parlavo di fatica, parlavo di dolore e di stimoli a migliorarsi. Eppure, rileggendola, mi sono accorto di come pensassi di essere già arrivato. Ricordo i miei occhi sognanti quando presi in mano quella cintura nera che tanto avevo atteso: era un po’ il mio traguardo, il mio trofeo.
Sono passati tre anni ed io davvero credo che forse un arrivo non ci sia neppure. Questo vorrei dimostrare con la mia tesina: che nelle arti marziali non esiste un punto di arrivo. O se esiste io non lo vedo. E forse è proprio tendere ad un qualcosa che non c’è, ad un qualcosa che potenzialmente è infinito che mi affascina ogni lezione di più.
Tuttavia, vorrei parlare in termini meno astratti e per farlo ho bisogno di utilizzare il linguaggio del corpo. Non so se riuscirò ad utilizzarlo bene: alcune cose mi riescono, altre meno, altre ancora meno. Ma non voglio dimostrare quanto sono bravo piuttosto quanto non lo sono.
Vorrei partire dagli esercizi che abbiamo preparato durante quest’anno. Sono esercizi che aiutano a sviluppare dei principi, vediamone alcuni.
Struttura:
Il corpo si muove attraverso dei cerchi e delle linee:
Ad un cerchio posso rispondere con un cerchio ed in questo caso sono in armonia. Ma posso anche decidere di tagliare il cerchio con una linea. In questo caso rompo l’armonia. Oppure ancora creo armonia e poi rompo l’armonia: come nel caso del terzo esercizio che abbiamo visto col coltello.
Il corpo nel momento in cui sono in guardia forma due pentagoni: uno inferiore, con le gambe, che non devono mai essere divaricate (altrimenti disperdo energia nel momento dell’impatto), bensì devono andare a cuneo quasi a tagliare la struttura dell’avversario; uno superiore, con le braccia. Ora sono con il mio avversario e abbiamo quattro pentagoni in gioco, le cui linee si intrecciano: come vado a far collassare la sua struttura? Retroversione del bacino e perineo attivo: immagino di avere una sfera dentro, la sfera ruota e mi fa muovere. È come se fosse una sfera d’aria, è il respiro che contrae la parete addominale. Una parte addominale contratta ma allo stesso tempo elastica non solo è indispensabile per ricevere i colpi, ma soprattutto per tirare i colpi e per avere un movimento continuo. Parte del respiro quindi lo tengo dentro di me, parte lo butto fuori (quando colpisco ad esempio) e lo recupero inspirando. Una corretta respirazione è indispensabile.
Non basta: ci devo attaccare un altro pezzo, il movimento:
Sposto il corpo nello spazio. O meglio sposto il mio peso nello spazio. Non devo mai distribuire il 50 % del peso su una gamba e il restante 50 % sull’altra: devo sempre aver la possibilità di sbilanciarmi. Perdo l’equilibrio per recuperarlo e lo recupero per perderlo di nuovo. Altrimenti non posso generare impatto. E questo è un concetto abbastanza difficile da mettere in pratica per me. Tendo ad inchiodarmi: a lavorare solo con la parte sopra. Muovendo il corpo nello spazio e spostando il peso sbilancio l’avversario. Il mio scopo è quello di ottenere il massimo risultato con la minima fatica.
Per spostare il corpo ho bisogno di energia. In questo senso il terreno mi è amico. Prendo energia dal terreno attraverso la torsione del corpo: parte dalla caviglia e come un flusso scorre lungo il mio corpo fino a generare il pugno o il calcio. È un’onda. Questa energia che ho generato non la posso però perdere, e qui torniamo al discorso dello sbilanciamento del peso. L’onda è un flusso continuo. Il pugno deve essere doppiato da un altro pugno e poi? In un esercizio do il tempo di lavorare al mio avversario, ma in teoria non devo dargli spazi in cui poter entrare.
L’energia la prendo anche dissipando i colpi. La dissipazione non è fine a sé stessa. Altrimenti dissipo uno, due colpi, ma se non sono in grado di ripartire da lì, vengo sopraffatto. Quindi devo pensare che l’energia che chi colpisce imprime su di me non la devo buttare, ma restituire! Ora, ho appena iniziato a vedere come, ma l’idea c’è. Bisogna vedere di applicarla.
Compressione ed espansione del corpo: il corpo è una molla, che lavora in torsione e contro rotazione. Forma spirali: dal basso salgono verso l’alto, e dall’alto scendono verso il basso. E il flusso di energia è continuo. Anche qui ho ancora molto da lavorare dal punto di vista pratico
Incrocio le linee: non posso disperdere impatto colpendo con linee di forza che vanno verso direzioni opposte.
È sufficiente? Non ancora! Fino ad adesso ho lavorato solo a partire dalle mie possibilità (e non le ho indagate tutte – sia perché ci vorrebbero anni per farlo, sia perché ad essere sincero sento di conoscerne solo una piccola parte). Ma se consideriamo che l’avversario non è un bersaglio immobile e, all’infuori dell’esercizio, non è in un atteggiamento collaborativo, è chiaro che tutte queste qualità motorie che ho acquisito devono essere supportate da altre, ad esempio il
Tempismo: devo avere una sorta di senso del ritmo quando combatto. Ci muoviamo per vuoti che dobbiamo andare a riempire, ossia devo cercare sempre il punto in cui la struttura dell’avversario è in collasso (o ancora devo cercare io di farla collassare). Per farlo tuttavia ho bisogno del tempismo, di capire dove sono questi vuoti e quando posso entrare.
La difficoltà maggiore non sta tuttavia nell’acquisire ciascuna qualità in relazione all’esercizio, o farle proprie ma a scompartimenti stagni: la meta che davvero ora come ora mi sembra quasi utopico raggiungere consiste nel prendere tutti questi principi (e molti altri che devo ancora fare miei) e unirli, come se fossero tanti mattoni utili a formare una casa. Il problema è che mentre sono impegnato a costruire una facciata della mia casa attraverso una serie di esercizi, rischio che la parete che ho costruito il giorno prima crolli un po’. E allora ci devo ritornare su, devo riprendere dei principi che davo per scontati ed incastrarli con i nuovi principi che ho imparato. Per questo è importante fare propri questi principi: in modo da poterli utilizzare intuitivamente, istintivamente anche fuori dall’esercizio. Altrimenti il rischio è di saperli mettere in pratica in un determinato contesto e non potersene servire in altri.
Eppure, è proprio questo che ogni settimana, da ormai dodici anni, mi spinge ad allenarmi. Il karate è un qualcosa che non stufa mai: anzi col tempo ti appassiona sempre più. È un po’ una trappola, una volta che ci sei dentro non puoi semplicemente tirartene fuori, se ci metti il cuore. Questo perché ti apre un mondo. Attraverso il karate, attraverso questa costruzione infinita, cresci come persona: impari l’impegno, la costanza, la completa dedizione in qualcosa e soprattutto la capacità di non mollare mai. Sono cose che diamo un po’per scontate. Oggigiorno l’atteggiamento di molti è improntato sul ma chi se ne frega. Perché se qualcosa non ci riesce, è molto più facile rinunciare, si fa meno fatica. Io sono convinto che così non si viva a pieno. Le arti marziali sono una costruzione infinita, ma se attraverso impegno e dedizione riuscirò ad avvicinarmi un po’ di più a questo infinito, ne sarà valsa la pena.

Zali Alberto


 

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